Don Arturo: sacerdote, missionario, monaco. Lo conobbi durante un mio breve rientro dalla Colombia. Ero fermo sulla corsia di emergenza sull’autostrada Firenze-Roma con l’auto dell’amico che mi portava a Roma in panne. Passò don Arturo, allora impegnato a promuovere sulle piazze d’Italia la cooperazione con l’America Latina, non so perché si fermò, non ci conoscevamo, forse fu il suo spirito di buon samaritano a fermarlo. Con lui proseguii il viaggio per Roma e poi andai con lui, come “testimone”, ad una settimana di animazione a Montecatini. Conobbi il prete “ostinato, incorreggibile disturbatore della quiete pubblica, dei sonni e delle tranquille digestioni (comprese quelle clericali). Lui, imperterrito, incurante delle critiche, delle derisioni, delle parole di compatimento, seminava inquietudini, distribuiva bracciate di rimorsi…” come lo descrive don Alessandro Pronzato suo compagno di seminario.
“Chi non ha dato tutto ha dato nulla”, è scritto nella pubblicazione uscita, “in memoria” per iniziativa della sua Fraternità Monastica, una frase che, ovviamente, doveva essere spesso sulla sua bocca. Don Arturo è stato intensamente, appassionatamente prete, missionario, monaco.
Sacerdote
Giovane prete scriveva: “La passione per l’apostolato non può soddisfare completamente il cuore di un sacerdote; è Gesù che sazia: “O Signore, ci hai fatti per Te, ed inquieto è il nostro cuore finché non riposa in Te””. Ed ancora: “Mi fa terribilmente paura diventare un prete mediocre”. “Devo seguire l’insistente voce di Gesù che sento sempre dentro di me: Morire a te stesso” e questo secondo le forme quotidiane di croci che il Signore manda, innegabilmente ed inaspettatamente”.
Qualche giorno prima dell’ordinazione la mamma gli aveva scritto: “Carissimo figlio, ti auguro il candore della purezza e l’umile bontà del cuore, e che la Beata Vergine della Consolata ti stia sempre vicina nel tuo pensiero e nel lungo cammino della tua vita, che possa portarti un giorno vicino al suo diletto Divin Figlio Gesù…”
Fece la sua prima esperienza come viceparroco nella parrocchia del Ronzone, un quartiere non facile di Casale. Al suo parroco, prima di andare, scrive. “Fui sconvolto alla nomina a Viceparroco del Ronzone per la difficoltà dell’ambiente e la mia incapacità. Però due pensieri mi hanno animato: l’avere un parroco buono, di spirito che mi fosse padre e guida, e il poter lavorare in una parrocchia povera. La prego con l’affetto di figlio di essere esigente con me, di correggermi duramente quando si accorgerà che il mio lavoro sarà più umano che soprannaturale. La prego farmi soffrire perché viva in me Gesù ed abbia a progredire nella perfezione…” .
Non fu facile il suo inserimento al Ronzone. “Nei primi tempi i modi bruschi della gente lo avevano intimorito, anzi, peggio, deluso… ma presto si sbloccarono le reciproche diffidenze e da allora i suoi occhiali, i suoi occhi sempre rovesciati ed ispirati, il suo modo di fare approssimativo ma generoso e pieno di entusiasmo, divennero un tutt’uno col rione: tutti si identificavano in questo giovane curato dalla manualità nulla ma dal cuore grande”.
Missionario
La sua prima esperienza missionaria è in casa. Nel 1956, su invito del suo vescovo, entra nel “Gruppo Sacerdotale Missionario Nostra Signora Regina di Crea”, dedito alle missioni popolari. Strade, piazze, bar, fabbriche e, naturalmente, chiese, oratori, saloni parrocchiali, ogni luogo diventava un pulpito da cui gridare Gesù Cristo. Dirà più tardi: “Il periodo delle missioni popolari è stato uno dei più ricchi e fecondi della mia vita… Eravamo una comunità di sacerdoti e laici… ci occupavamo dell’evangelizzazione nelle città, soprattutto nei quartieri periferici, dove l’emarginazione era più evidente”.
Nel 1964 il Vescovo di Casale Mons. Angrisani torna dal Concilio riportando l’appello del Papa che chiedeva sacerdoti per l’America Latina e con una proposta: la cooperazione con la diocesi di Neuquèn, nella Patagonia Argentina. Don Arturo si offre con altri tre sacerdoti della diocesi. Così nel 1965 si imbarca per la Patagonia. Fu incaricato di una nuova parrocchia, Plottier. Furono due anni di grande condivisione coi poveri, che lo “graffiarono” per tutta la vita.
La sua missione argentina durò poco. Lo richiamano perché si rimetta a scorrazzare per l’Italia per promuovere la cooperazione con l’America Latina. Erano gli anni bollenti del ‘68, “mi dettero anche del maoista, e pensare che parlavo solo della Populorum Progressio!”. Ricordo la sua passione per i poveri nello spettacolo al Kursal di Montecatini, nella settimana che feci con lui. Coinvolse anche Carlo Campanini che si trovava, casualmente, nella città termale. Riusciva a scaldare le masse e turbava la tranquilla coscienza dei benpensanti.
Poi, quasi improvvisamente, lasciò tutto. Era stanco di quella vita, non era più la sua vita: “Era un continuo viaggiare: incontri, dibattiti, conferenze in ogni parte d’Italia. Una vita frenetica che rischiava di farmi perdere di vista il senso stesso del mio sacerdozio. A un certo punto mi sono reso conto del bisogno di pregare in silenzio, mi sono accorto di essere stanco di parlare”.
Monaco
Allora lascia tutto e comincia il suo pellegrinare attraverso varie esperienze per individuare la sua strada. Sentiva forte la chiamata alla vita semplice e radicale del monaco. “Sentivo l’urgenza di una vita in cui poter coniugare strettamente la ricerca di Dio e un ritmo di vita povero. Trovavo comunità che pregavano in modo splendido, ma erano così lontane dal mondo dei poveri.., e trovavo comunità veramente povere, ma in cui Dio era relegato a un piccolo angolo”.
In un certo momento pensò anche di iniziare una intensa vita di preghiera in Brasile, tra i baraccati di Recife, insieme ad un amico sacerdote missionario laggiù.
Il suo primo tentativo di vita monastica lo fece nell’abbazia benedettina di Noci. “Dopo aver imparato a fare il predicatore e il missionario ora dovrai imparare a fare il monaco” gli disse l’Abate Magrassi. Ma non era quella la sua strada. Seguirono altre esperienze marcate dalla ricerca di radicalità.
Nell’autunno del 1973 il suo Vescovo gli diede il permesso di iniziare un’esperienza eremitica su una splendida collina, Collegna di Verrua Savoia, un tempo parrocchia ora ridotta a piccolo borgo, con una vecchia canonica abbandonata. Si mise al lavoro ed in pochi mesi la casa e la Chiesa divennero funzionali. Voleva vivere da eremita ma non fu mai solo. Lui, che era partito per cercare Dio, si trovò sempre più cercato dagli uomini. Nel periodo di Collegna, per rispolverare la sua teologia, passò un periodo di tempo a Roma per studiare teologia spirituale al Teresianum.
Sognava il suo “monastero” come “tenda aperta”, dove cioè la ricerca di Dio fosse vissuta in uno stile di semplicità e provvisorietà, ma nello stesso tempo fosse condivisa con quanti bussavano alla sua porta. E furono molti, in quel tempo, a salire a Collegna: preti, seminaristi, suore e tanti laici.
Un bel giorno, dalla parrocchia gli chiesero di pagare un affitto della vecchia canonica che aveva sistemato. Non aveva con che; preferì cercarsi una nuova sistemazione.
La trovò a Montecroce. Nel desiderio di provvisorietà, organizzò il suo “monastero” in sette vecchi autobus acquistati dal comune di Torino. Uno lo adibì a cucina e sala da pranzo, un’altro a cappella, due a magazzino, uno ai servizi e due furono divisi in piccole celle. Vi accoglieva i numerosi gruppi che venivano alla ricerca di un silenzio che parlasse di Dio. Le giornate di ritiro, tra preghiera, lectio divina, lavoro manuale e molto silenzio dicevano ai cuori molto più di tanti discorsi. A Montecroce il cammino iniziato da Padre Arturo aveva ormai acquistato una sua identità: Si stava conformando la Fraternità monastica che sognava e i ritmi di vita avevano acquistato la loro regolarità. Nell’accoglienza si era orientato sempre più verso l’offerta della Parola di Dio. Gruppi o singoli che trascorrevano dei periodi nella Fraternità erano introdotti alla Bibbia. Ogni anno veniva proposto un cammino quindicinale di Lectio Divina.
In questo periodo volle fare anche alcune esperienze concrete di itineranza. Coi membri della sua Fraternità e qualche amico, zaino in spalla, col puro indispensabile, partiva alla ricerca di Dio. Era un andare in preghiera, in povertà e in comunione, senza denaro, chiedendo ospitalità dove capitava, offrendo in cambio qualche ora di lavoro. Andò ad Assisi, a Santiago di Compostela ed ai santuari del Piemonte.
Ben presto i muri e gli autobus di Montecroce si dimostrarono troppo stretti. “È bene che vi guardiate attorno e cerchiate un luogo più adatto per vivere la vostra vita monastica ed offrire con più abbondanza la Parola di Dio” gli disse un giorno il suo Vescovo.
Così, nel 1987, approda a San Valeriano di Cumiana, in diocesi di Torino e lì approfondisce il suo sogno di “monachesimo antico”, tutto incentrato nella Lectio divina. Il suo “monastero” diventa un punto di riferimento per molta gente, nascono le “Piccole fraternità della Parola”, gruppi di laici che settimanalmente si incontrano attorno alla Parola, pregata con lo stile della lectio divina, tentano cammini di autentica comunione fraterna, pronti a comunicare ad altri il dono ricevuto e l’esperienza vissuta.
“La Parola genera comunione, la comunione si apre alla Missione”. Parola, Comunione, Missione sono i tre pilastri che hanno scandito il cammino di don Arturo e che ritmano anche la vita delle Piccole Fraternità, inserite nel cuore della Chiesa. “Tutti noi che saliamo a San Valeriano siamo accomunati da alcuni elementi che superano e colmano le differenze di età, di estrazione sociale, di cultura, di formazione religiosa. Ci troviamo tutti a percorrere uno stesso cammino di conversione nella conoscenza e approfondimento della Parola di Dio”.
La Pasqua
Gli ultimi due anni furono contrassegnati da un progressivo declino delle condizioni di salute. Padre Arturo aveva sempre ammesso la sua paura di fronte alla sofferenza fisica, la sua debole capacità di sopportazione, la sua impazienza di fronte a tutto ciò che non si risolvesse in breve tempo. Il letto di ospedale che lo ospitò nei ripetuti ricoveri lo ammansì, lo rese docile, paziente, accogliente di fronte a tutto ciò che ormai non poteva più fare da solo e per il quale doveva essere aiutato. Giorno dopo giorno il Signore scalpellava i nuovi tratti del suo volto, sempre più simile al volto di Cristo. E lui “non oppose resistenza, non si tirò indietro” (cfr. Is 50,5).
Le settimane passavano, e “mentre l’uomo esteriore si andava disfacendo – come dice San Paolo – quello interiore si andava rinnovando di giorno in giorno” (cfr. 2Cor 4,16). Arrivarono le avvisaglie che il Tessitore divino aveva ormai terminato di arrotolare la tela della sua vita (cfr. Is 38,12), e perciò chiedemmo di poterlo portare a casa dall’ospedale.
Gli ultimi tre Giorni furono quelli della sua Pasqua, i giorni in cui, completamente arreso alla volontà di Dio, stava offrendo tutto di sè. La sua croce fu quel letto sul quale ormai da settimane era inchiodato; il suo dolore fu quello di non poter più donare una parola, non poter più ascoltare la confidenza di una pena. Ma sapeva bene che proprio adesso stava realizzando la sua missione più grande, come gli aveva ben ricordato qualche mese prima il caro amico e fratello Mons. Giachetti: “Padre Arturo, tu hai fatto tante cose belle da missionario, ancora più belle da monaco. Ma ricorda: la parte più feconda della tua vita è quella che stai vivendo ora, nella malattia”.
Era la domenica mattina, XIV del Tempo Ordinario, quando passò dalla vita terrena a quella eterna. Suonavano in quel momento le undici. Cominciavano in tutte le Chiese le Messe solenni della domenica, memoria della risurrezione di Cristo. E Padre Arturo stava risorgendo con Lui.
Di lì a poco sarebbe risuonata da ogni ambone la voce del Cristo: “Venite a me, voi tutti che siete affaticati ed oppressi, e io vi ristorerò” (Mt 11,28).
(tratto da: Fidei Donum. Profili,
Quaderni della Segreteria generale CEI, n. 22, Ottobre 2005)
[chi desiderasse l’opuscolo biografico “Chi non ha dato tutto ha dato nulla”, può richiederlo alla Fraternità monastica]